I 15 libri, composti dal 2 all'8 d.C.,costituiscono un grande poema epico in esametri che raggruppa una serie di storie indipendenti, accomunate da uno stesso tema: la trasformazione, la dotta ricerca della cause, l'amore nell'universo del mito.
L'opera già ben nota in età carolingia godrà di grande fortuna nei secoli XII e XIII, definiti per questo aetas ovidiana.
Tra le circa 250 vicende narrate nel corso del poema, alcune sono esplicitamente ricordate nel Purgatorio dantesco come exempla morali o con intento descrittivo.
Purg.23, 25 - 27, Ovidio, Metam. VIII vv. 738 - 777: Erisitone
Erisìctone disprezzava le divinità e non bruciava mai nulla in loro onore sugli altari. Si dice che addirittura che avesse profanato un recinto sacro a Cèrere violando con la scure un antico bosco. Si ergeva lì una quercia immensa, sotto la quale le Drìadi avevano intrecciato danze festose.
Erisìctone la colpì tanto che l'albero crollò travolgendo col suo peso gran tratto di selva.
Le Drìadi, inorridite per la rovina del bosco,chiesero a Cèrere di punire il sacrìlego, e la dea escogitò una pena tanto terribile che " susciterebbe pietà, se qualcuno potesse mai avere compassione di un simile malfattore ": volle farlo divorare dalla terribile Fame. Inviò dunque una ninfa nelle estreme lande desolate e sterili della Scizia, dove non cresceva albero né alcun cereale. Là vivevano solo Freddo, Pallore, Brivido e Fame.
Quest'ultima entrò nella camera del sacrilego Erisictone immerso in un sonno profondo, lo avvinse tra le braccia e, respirandogli in bocca, gli si insufflò nel corpo. Poi, compiuta la missione, tornò alla sua desolata dimora.
Erisictone in sogno cominciò a provare il desiderio di mangiare e, risvegliatosi, il desiderio si fece smania, e poi furia. Non può aspettare: divora tutti i cibi, ne richiede sempre di nuovi, prodotti della terra, del cielo, del mare; più mangia e più lamenta di soffrire la fame e dà fondo alle sostanze paterne.
Alla fine, consumato l'intero patrimonio, null'altro può vendere se non la figlia e lo fa più volte, contro la volontà della poverina.
Il male di Erisìctone si aggravò a tal punto che egli cominciò a lacerarsi e strapparsi a morsi i propri arti e a nutrirsi, sventurato, rosicando il proprio corpo.
Ipse suos artus lacero divellere morsu
coepit, et infelix, minuendo corpus alebat.